Roger Abravanel
 
Palazzo Visconti, a due passi da Piazza San Babila e da Corso Vittorio Emanuele, in questa tiepida serata di primavera, appare mesto e trasandato, impacchettato nei teli e con i ponteggi, mali inevitabili per sperare di tornare all’antico splendore.  Basta però superare l’ingresso e salire sulla destra le ampie scalinate per arrivare alla stupefacente bellezza della Sala Visconti, location prestigiosa fino al 1990 della Fondazione Carlo Erba.
In questo salone a doppia altezza, dove gli ospiti anche solo con un veloce sguardo rimangono affascinati dai dipinti settecenteschi con stucchi, boiseries, ferri battuti ed affreschi del Novecento, è quanto mai naturale che ci si possa riunire per confrontarsi su un tema sempre di attualità, la cui problematica è ben lontana dall’essere risolta, soprattutto nel nostro Paese.
In questa conviviale Interclub che vede riuniti i soci del R.C. Milano Ovest e del R.C. Milano Castello si parla di “Meritocrazia” con un ospite la cui fama internazionale rende inutile ogni richiamo al curriculum. Stiamo parlando di Roger Abravanel, ingegnere, director emeritus di McKinsey, consigliere di amministrazione di prestigiose aziende italiane ed internazionali, saggista ed editorialista del Corriere della Sera che, insieme a Maria Cristina Origlia, giornalista socio-economica del gruppo Sole 24Ore, ci illuminerà su quanto sia imprescindibile nella società di oggi dare spazio alla Meritocrazia e perché solo con questa visione l’Italia potrà cambiare.
Prima di addentrarci nel tema della serata, proprio all’insegna dell’eccellenza, viene conferita al Generale Brigadiere Claudio Zanotto, Supervisore farmaceutico della Difesa, la Paul Harris Fellow per i risultati conseguiti durante l’emergenza sanitaria nella gestione dei vaccini presso l’’Hub Centrale di Pratica di Mare e per l’impegno profuso nella distribuzione, permettendo il loro arrivo a destinazione e garantendo che fossero applicate le corrette regole di conservazione. L’onorificenza assume in questa circostanza un valore simbolico ancora più importante perché proprio in una visione meritocratica si vuole premiare una personalità non rotariana.
Il nostro relatore sin dalle prime battute non è certo morbido con il nostro Belpaese. La sua opinione è severa perché la Meritocrazia in Italia non è mai esistita ed è ormai opinione diffusa che non si può avere successo in modo lecito e non c’è spazio per una competizione leale.
Vista quasi come un miraggio, la sua assenza genera ansia e incertezza in tutte le famiglie italiane che vedono affacciarsi i propri figli diciottenni alla scelta che cambierà la loro vita, perché comunque vada, dopo il quinquennio di studi superiori, una decisione dovrà essere presa.
Alle inevitabili indecisioni si aggiunge il timore che l’università - a volte bastione di nepotismo piuttosto che tempio di meritocrazia – sia un lungo e faticoso cammino che forse non porterà a nulla, perché poi sarai solo un laureato disoccupato o mal pagato, carico di rancore verso la società e devastato dalla frustrazione.
Se trasferirsi all’estero per accrescere le proprie esperienze è una fantastica avventura non lo è di certo ritrovarsi in un altro paese che non puoi sentire tuo perché sei lì non per tua scelta, ma perché obbligato.
Tutti vogliamo nasconderlo, ma il pensiero va sempre a come si può crescere professionalmente e questo “come” - spesso - non si sofferma tanto sul “Merito” ma sulla tanto deprecata parola da tenere gelosamente nascosta, che si chiama “raccomandazione”. E tutto nella convinzione che se non saremo noi a farlo, lo farà qualcun altro. È così che si diffonde l’idea che avere talento in Italia non paga e se vuoi veramente che ti venga riconosciuto qualcosa devi fuggire all’estero.
La Meritocrazia nacque ad Harvard nel 1933 quando James Conant, presidente di Harvard dal 1933 e il 1953 introdusse lo Scholastic Aptitude Test, stravolgendo il metodo di ammissione all’Università. Da quel giorno un’élite aristocratica e garantita venne a poco a poco sostituita da un ceto medio che poteva finalmente accedere non per il cognome che portava ma per le sue capacità.
La Meritocrazia è ambizione per l’eccellenza ma eccellere non vuol dire pensare solo a sé stessi dimenticando chi ci sta intorno. Non è la panacea per tutti i mali, non è certo priva di difetti, si presta a critiche, ma non la si deve distruggere perché è la strada per ridurre le disuguaglianze o almeno attenuarle. Certo ancora molta strada si deve fare se si pensa che ancora oggi nelle università Top sono ammessi quelli che il sociologo Michael Young chiamava «i figli dello sperma fortunato» ovvero i figli di genitori di reddito alto, anch’essi laureati in università top, che non passano ai figli patrimoni e aziende, ma una miglior preparazione alla difficile selezione.
Le critiche alla Meritocrazia sono molteplici e tra queste, non ultima, c’è l’idea che nella “tirannide della meritocrazia” regni una forma di disprezzo dei vincenti verso i perdenti. Si deve rifuggire questa accezione che non solo è negativa ma addirittura riduttiva. La Meritocrazia è un valore e la sua assenza non può che determinare il declino di qualsiasi economia.
Forse anche la religione ha influito sul riconoscimento della Meritocrazia quale valore per la società. Non sappiamo quanto, ma resta il fatto che la Cina dove il confucianesimo per secoli è stato alla base della società si può ben dire che sia uno tra gli Stati più meritocratici.
Il nostro Paese ha bisogno di importanti e strutturali riforme che semplifichino il modo di fare economia e generino una nuova idea di Stato, che sino ad oggi - quasi sempre - è visto come apparato e come tale sinonimo di burocrazia, sorda alle esigenze dei cittadini, ma pronta a prevaricare insensibile su di loro se non vengono rispettate le regole. Uno Stato che sembra a volte garantire i più deboli, anche se non se lo meritano, perché è opinione diffusa che i più forti non lo sono diventati per meriti, ma perché senza dubbio deve essere accaduto qualcos’altro. Lo Stato deve invece diventare ben altro e cioè promotore di crescita economica, agevolando la nascita di nuove aziende.
Le aziende italiane hanno bisogno di talenti ma perché rimangano occorre in ogni modo combattere l’idea che il merito non venga premiato. Forse è proprio la mancanza di talenti che impedisce alle Startup europee, ma soprattutto in italiane, di diventare Unicorni, cioè aziende private che raggiungono una valutazione di mercato di oltre un miliardo di dollari, diventando grandi in un arco temporale di circa sette anni.
Nella società della conoscenza, subentrata all’economia industriale e post-industriale dei servizi, occorre valorizzare il capitale umano e attuare riforme di sistema che possa garantire una democrazia meritocratica che sia aperta e diventi occasione di crescita e miglioramento anche per tutti coloro che sono dotati, hanno l’ambizione di sfruttare le opportunità, ma non hanno le risorse sufficienti per accedere. Una laurea in un’ottima università deve garantire l’ascensore sociale a chi dedica tempo, energie ed ingegno per diventare il meglio. Una vita migliore è il minimo che si possa promettere a queste persone.
La serata è volata in un lampo. Tanta strada c’è da fare e forse non siamo neppure partiti. Abbiamo però una certezza. Il nostro relatore è un paladino del “merito” e lotterà perché ci sia un ’68 di lontana memoria, perché non può esserci spazio per una società nemica della “Meritocrazia”.
 
Roberto Ferrari